L’idea
di visitare Calcutta nasce durante la lettura del libro “La
città della gioia” di Dominique La Pierre, un
regalo per il mio compleanno. Mentre leggevo la storia di
Hasari, un povero contadino indiano e la frenetica vita quotidiana
che egli stesso vedeva nel girare per la città tra
viali, strabelli e ponti, nasceva in me la volontà
di intraprendere questo viaggio alla scoperta di una città
indiana, forse la più povera, la più emarginata
nell’industrializzata India che vede ora sorgere il
sole nel nuovo mondo del benessere legato all’elettronica,
all’industrializzazione, allo stare bene.
Già dopo l’atterraggio a Calcutta noto, oltre alla poca luce che illumina l’aeroporto e i vecchi ventilatori che cercano di muovere la pesante ed umida aria notturna, una tranquillità surreale, un lento e pacato modo di darti il benvenuto in terra indiana dai locali agenti aeroportuali e, all’uscita, il gentile quanto informale modo di chiederti se hai bisogno di un taxi o altre informazioni per un piacevole soggiorno a Calcutta.
Sorge il sole, la città è drammaticamente caotica, una frenetica vita che conducono milioni di persone giornalmente, un luogo immenso e nello stesso tempo cupo dove, smog e aria umida, rendono il tutto quasi artificiale.
Ti colpisce subito l’assordante rumore dei clacson di risciò, biciclette, motorette, auto e camion, corriere e pullman, un fragore assordante che aumenta negli incroci, sui viadotti e nelle strade periferiche della città; quel modo di farsi strada, di farsi sentire e vedere, quel “sistema” di passare avanti nella frenetica vita di Calcutta.
Ma non c’è da spaventarsi girando per la città a piedi o scarrozzando su una vecchia Ambassador, quel simbolo dell’India che c’è, è ancora presente e che ognuno di noi deve usare e non solo vedere per fotografare. La gioia che La Pierre descrive nel libro si percepisce avvicinandoti alla zona nei pressi del ponte Howrah dove quella gigante struttura in ferro arrugginito, che attraversa il fiume Hooghly, Ganga per gli abitanti del posto, unisce 2 mondi, 2 diverse realtà: la città povera con la ricca.
Già prima di arrivare all’inizio del ponte il caos aumenta, l’aria diventa sempre più irrespirabile a causa di smog, odori vari acri e pungenti, forte rumore causa di un incontrollato via-vai di mezzi motorizzati, biciclette, e tutto ciò che può circolare. Per dire la verità anche gruppi di capre ho visto vagare per quelle strade, un lento ma inesorabile avvicinarsi al Tempio della Dea Kali, un luogo simbolo dell’India dove quotidianamente le capre vengono ritualmente sgozzate in onore della dea Kali, temibile reincarnazione della prima moglie del benevolo e clemente Shiva, Sita.
Arrivi ai piedi del maestoso ponte e trovi venditori ambulanti, mendicanti, negozietti in cupi ed oscure cavità ricavate nelle vecchie fondamenta di case, trovi un folto numero di indiani poveri che lavorano per poche rupie. Questa è la vera Calcutta che mi aspettavo, l’immagine della vera e vecchia città, si entra in contatto con un diffuso degrado urbano e con la vita di milioni di persone che come casa hanno un cartone, uno straccio, due legni o niente, quel niente che essi stessi non percepiscono. Cammini, guardi, ti soffermi: la maggioranza è felice e contenta, secondo il loro credo, di non possedere niente; negli occhi noti la povertà che stai toccando con mano. Vorresti fermarti di più ma non puoi, odori sgradevoli di avvinghiano, ti prendono fin dal tuo più interno corpo e non ti lasciano più, ti seguiranno anche al tuo ritorno intrisi negli abiti che indossavi.
Ma
la vita deve continuare, il mercato dei fiori
poco distante è già operativo e lo si nota da
grandi cesti pieni da sgargianti fiori dalle molteplici tonalità
portati sulle spalle esili e arcuate dal duro lavoro di tanti
presunti venditori. Ti addentri nelle strette viuzze ai bordi
del fiume e con la bilancia ai lati dei fiorai pesi, oltre
ai fiori, la fatica di raccogliere cosi tante infiorescenze,
tutte divise per genere e tutte sistemate con armonia attorno
all’ambulante. Io posso solo notare, camminare fra pozzanghere
della pioggia notturna, scavalcare i vicini binari di una
vecchia ferrovia che non fa più paura e che i bambini,
uomini e donne percorrono in lungo e in largo. Chissà
se mai un treno passerà, quel treno della speranza
che molti di loro aspettano da una vita!. Forse il non sapere
quando transiterà quel convoglio li ha costretti a
fissare una dimora in oscure baracche ai lati, un modo per
essere sempre pronti all’eventualità.
Dall’altra parte del ponte la città più benestante, splendidi edifici coloniali e templi storici. Un’altra Calcutta con ristoranti, musei e giardini botanici che abbelliscono questa parte dove la colonizzazione britannica è rimasta impressa sui muri di molti palazzi. Qui trova posto anche il Palazzo di Marmo, un immenso edificio circondato da giardini e statue di marmo dove un custode vi conduce all’interno a visitare le grandi sale. Purtroppo la mia impressione è che di visitatori ne vengono pochi vista la carenza di illuminazione all’interno delle sale e che tutto il mobilio, arazzi e statue sono ricoperte da teli. Un allegro modo di scoprire centimetro dopo centimetro oggetti vittoriani, busti, orologi dorati e grandi e sontuosi candelabri.
Calcutta
riporta alla mente anche Madre Teresa, quella minuta ma tenace
donna che qui ha creato un centro per i più poveri,
soprattutto bambini. E’ stata una triste ma reale visita
percorrere le diverse stanze dove sono ospitati centinaia
di fanciulli bisognosi, un incontro che dal tuo proprio profondo
ti fa pensare alla vita, al significato e al valore che noi
diamo ad “bene” così prezioso che solo
dopo queste viste riesci ad apprezzare maggiormente. Fortunatamente
l’opera di Madre Teresa ha dato e continua a dare i
suoi frutti grazie anche ai volontari che da tutto il mondo
vengono qui per continuare la strada che una donna altruista
ha iniziato molti anni fa. Un altro forte ricordo della città
lo rivivi nei pressi di Nimtala Ghat, un posto solitario che
sorge sulle rive del fiume Hoogly, uno dei tanti rami del
Gange che si infiltrano e si dipanano alla fine della sua
corsa nel grande delta dove, quotidianamente, vengono cremati
corpi dei defunti. Un luogo dove la caligine oscura il cielo,
gli odori sprigionati dalle pire infiammate pungono le narici
e i fiori bilanciano l’acredine dell’aria profumandola,
la gente e i parenti gioiscono come da loro tradizione. E’
qui che vengo a contatto con la vera cultura indiana, il culto
della morte che si consuma in una manciata di minuti. Famiglie
di poveri uomini festeggiano, anche se con le lacrime, il
trapassare, il lasciare questo mondo dei loro congiunti per
un altro, più fortunato. Si tocca qui con mano la gioia
che Dominique La Pierre voleva trasmettere attraverso le sue
profonde parole scritte su un libro, un libro che deve far
riflettere soprattutto chi Calcutta non l’ha ancora
visitata.
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